A ottobre del 2022 tenemmo a Palermo una nostra assemblea nazionale che aveva per tema «Una scuola che unisce. Un nuovo alfabeto per superare squilibri e disuguaglianze». Quel titolo si presta bene a rappresentare la nostra visione di scuola: fattore di importanza fondamentale per la formazione e la crescita della persona, in una dimensione di appartenenza alla comunità di cui la scuola contribuisce a rafforzare l’unità e la coesione. Punti di riferimento essenziali i principi fissati nella Costituzione, per cui la scuola pubblica diventa uno degli strumenti che la Repubblica può attivare per adempiere al compito assegnatole dall’articolo 3, rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. Più di recente, un obiettivo posto in modo esplicito nel PNRR è quello di superare squilibri e disuguaglianze che rendono ancora oggi così «disuguale» il nostro Paese, condizionandone oltretutto pesantemente le possibilità di crescita.
Per questo guardiamo con preoccupazione all’ipotesi di una regionalizzazione del sistema scolastico, che per noi deve mantenere assolutamente il proprio carattere unitario e nazionale. Troppo alto il rischio di vedere accentuati i divari che si registrano fra territorio e territorio in ordine alla quantità e qualità dei servizi erogati.
Basterebbe pensare alle strutture edilizie, o al tempo scuola, o agli esiti delle indagini nazionali e internazionali sui livelli di apprendimento, per capire come la vera priorità sia oggi quella di investire con particolare cura, anche dal punto di vista del servizio scolastico, nelle aree di più accentuato disagio socioeconomico e di più pressante emergenza educativa. Alla fine dell’assemblea di Palermo approvammo un documento, sotto forma di manifesto che riassume in dieci punti ciò che contraddistingue una scuola che unisce: accogliente, inclusiva, pluralista, aperta alla ricerca e all’innovazione, perno di alleanze educative, luogo di partecipazione e condivisione. Rimando a quel documento per una più puntuale declinazione di questi requisiti. Siamo certamente consapevoli che una visione di così alto profilo presuppone la possibilità di far conto su un’elevata qualità professionale, per la quale sono fondamentali il percorso formativo richiesto per accedere al lavoro nella scuola, per l’insegnamento e per ogni altra mansione, le modalità di reclutamento, la formazione in servizio per un costante aggiornamento del personale. Sono aspetti per i quali non tutto è riconducibile all’ambito della contrattazione, che è quello su cui il sindacato esercita le sue prerogative. Formazione iniziale e reclutamento, ad esempio, sono temi affidati alla disciplina per via legislativa. Anche su questi, tuttavia, la CISL Scuola si è sempre posta in un atteggiamento di attenzione, di dialogo e di confronto, offrendo all’Amministrazione e in generale alla politica proposte puntuali e qualificate. Una singolare coincidenza di tempi fa sì che l’anno di nascita della CISL Scuola (con la confluenza in un’unica sigla dei sindacati che in precedenza organizzavano autonomamente, nella CISL, i lavoratori della scuola dell’infanzia e primaria e quelli della scuola secondaria) sia anche quello in cui partì l’ultimo ciclo dell’istituto magistrale, mentre si avviavano i corsi di laurea in scienze della formazione primaria, titolo richiesto a partire dal 2001 per accedere all’insegnamento nella scuola elementare e materna, come allora si definivano la primaria e la scuola dell’infanzia. Prima bastava il diploma quadriennale, addirittura triennale per la materna. Fu un passaggio che sostenemmo convintamente, per l’implicito riconoscimento dell’importanza e del valore di segmenti del sistema scolastico per i quali, a torto, si riteneva non servisse una particolare qualificazione, rivolti com’erano, molto spesso, a soddisfare una domanda prevalentemente assistenziale. Sui percorsi di accesso alla docenza nella secondaria siamo da circa vent’anni, invece, in una sorta di cantiere perenne, con riforme non sempre adeguatamente preparate, frutto piuttosto del protagonismo politico di ministri e governi di turno, come purtroppo accaduto anche per interventi sull’ordinamento scolastico. Ancor peggio accade sul reclutamento — materia di esclusiva competenza del Legislatore — dove assistiamo da anni all’invenzione di modalità concorsuali sempre nuove ma sempre ugualmente incapaci di soddisfare il fabbisogno di insegnanti: le ultime tornate di assunzioni hanno visto rimanere scoperta una percentuale altissima dei posti disponibili, oltre il 50%, grazie al fatto che si sta utilizzando il solo canale dei concorsi per esami. Il rifiuto, tutto ideologico, di ripristinare un sistema a due canali, uno dei quali destinato a valorizzare l’esperienza di lavoro acquisita dal personale precario (alla cui presenza di deve oltretutto la possibilità, in moltissimi casi, di far funzionare regolarmente l’attività scolastica) è davvero inspiegabile, alla luce di quanto avviene nella realtà concreta delle nostre scuole. Se negli ultimi due anni si è riusciti ad aumentare la percentuale di posti coperti, è perché almeno in parte, per le attività di sostegno, si sono fatte assunzioni dalle graduatorie per le supplenze (le cosiddette GPS), adottando in sostanza il sistema a due canali che la CISL Scuola insiste a proporre come soluzione da adottare a regime.
Quelle che chiediamo non sono «sanatorie», come vengono sprezzantemente definite: chiediamo che, come avviene in ogni settore produttivo, l’esperienza di lavoro (monitorata, sostenuta con robusti innesti formativi, valutata) sia considerata un fattore che contribuisce a formare e arricchire la professionalità, un valore su cui far conto e di cui avvalersi, non un fardello di cui liberarsi. I lunghi, lunghissimi periodi di lavoro di un precario permetterebbero di valutarne le capacità molto più di quanto possa fare un singolo esame, magari a quiz.
Uscire dall’ideologia, e affrontare il tema nella sede appropriata, che è quella contrattuale, è un’esigenza che si pone anche per quanto riguarda profilo professionale e carriera dei docenti. Magari ripartendo proprio dalle basi che in un confronto fra amministrazione e sindacati furono poste molti anni fa, mai più riprese anche per la lunghissima vacanza contrattuale, protrattasi di fatto per un decennio, prima che si riprendesse la normale cadenza dei rinnovi triennali. Tre aspetti caratterizzano oggi il trattamento economico dei docenti: un livello retributivo che rimane complessivamente inferiore alla media europea, nonostante gli ultimi due rinnovi contrattuali. La rigidità delle carriere, che hanno come unico fattore di avanzamento l’anzianità maturata in servizio. La durata troppo lunga di un percorso che richiede ben 35 anni per accedere all’ultimo scatto stipendiale, il cui importo supera del 50-55% quello dello stipendio iniziale. Un esempio: un docente delle superiori al primo anno di servizio percepisce poco più di 2.000 euro mensili lordi, un docente con 35 anni di anzianità ne guadagna poco più di 3.100 lordi. Negli altri paesi europei il tempo richiesto per raggiungere il massimo livello di stipendio è molto minore, e l’incremento è più consistente. La situazione appena descritta ci fa capire come vi sia ancora molto da fare perché la situazione complessiva della categoria possa ritenersi rispondente in modo adeguato all’importanza del lavoro svolto: finché il miglioramento in termini generali della condizione retributiva resta una priorità ineludibile, diventa difficile, per non dire impossibile, sottrarre risorse a questo obiettivo per destinarle a sostegno di nuove e diverse opportunità di carriera per quote più o meno ristrette di personale. L’esperienza insegna come sia estremamente problematico attuare modalità di selezione «meritocratica», che rappresentano la modalità ricorrente con cui, in tempi diversi e da differenti parti politiche, si sono ipotizzati percorsi che permettessero agli insegnanti individuati come «migliori» di accedere a retribuzioni più consistenti. Una delle più clamorose bocciature la ebbe, più di vent’anni fa, il tentativo fatto dall’allora ministro Luigi Berlinguer di premiare con un consistente aumento di stipendio i docenti che avessero affrontato e superato una procedura di valutazione del proprio lavoro, battezzata e da allora nota tutti come «concorsone». Un progetto talmente contestato che non ebbe mai attuazione nonostante fosse frutto di un accordo con i sindacati nell’ambito del rinnovo del contratto. In tempi più recenti, del resto, persino un pasdaran della meritocrazia come Renato Brunetta, ministro della Funzione Pubblica del governo Berlusconi (2008-2011), ritenne che non fosse possibile applicare al mondo della scuola il modello premiale da lui pensato per i dipendenti della pubblica amministrazione (le fasce di merito), evidentemente consapevole della specificità di una professione, quella dell’insegnante, quanto mai complessa e difficile da valutare. Complessità e specificità che da sempre ci portano a dire, come CISL Scuola, quanto sia opportuno privilegiare, nel definire percorsi di carriera più articolati e ricchi di opportunità, non il ricorso a procedure astrattamente selettive, ma modelli in cui retribuzioni più vantaggiose siano connesse allo svolgimento di mansioni di cui il sistema può avere necessità e che richiedano particolari livelli di preparazione e competenza, o ancora alla disponibilità a lavorare in contesti particolarmente problematici, garantendo una continuità di impegno da incentivare in modo significativo anche dal punto di vista economico. Se l’approccio al tema delle carriere fosse questo, sono convinta che sarebbe possibile avviare nella sede opportuna, quella del contratto di lavoro, un confronto proficuo, nel quale sarebbe possibile individuare, fuori da ideologismi di ogni genere, percorsi concretamente praticabili anche perché sostenuti da un’ampia condivisione della categoria. Collegialità, cooperazione, condivisione delle responsabilità sono fattori di primaria importanza in una scuola che agisce come comunità educante, e contribuiscono in misura rilevantissima a tenere alto il livello dell’offerta formativa. Forme di premialità che accentuino i livelli di concorrenzialità e competizione interna al sistema rischiano di essere, sotto questo aspetto, controproducenti. Se si accetta di impostare la questione nei termini che ho cercato brevemente di illustrare, non mancherà da parte della CISL Scuola la disponibilità a discuterne, e a individuare soluzioni che facciano fare alla scuola e al suo personale un passo in avanti verso una valorizzazione professionale che è nell’interesse di tutti, del sistema e di chi lo sostiene ogni giorno col proprio lavoro.