MARIA PAOLA PIETROPAOLO – Nella sua lunga esperienza di psicopedagogista, lei ha lavorato come educatore di strada in contesti segnati da grande povertà educativa, con ragazzi difficili, a rischio di devianza ed emarginazione. Ma, anche al di fuori di territori a rischio, la cronaca di questi ultimi mesi ci restituisce l’immagine di una generazione di ragazzi fragili, in difficoltà nelle relazioni tra pari, in bilico tra l’autoisolamento o, al contrario, l’aggressione spesso gratuita e crudele. Certo, questi comportamenti riguardano minoranze di ragazzi e ragazze, e tuttavia sono molto inquietanti e un segnale di un disagio molto più diffuso e spesso difficile da decifrare. Tutta colpa della pandemia? O dei social? Cosa sta succedendo a questi ragazzi? Lei che ne pensa?
STEFANO ROSSI – Per quanto riguarda la crisi dei nuovi adolescenti possiamo dire che c’è stato un ribaltamento della figura adolescenziale corrispondente al ribaltamento del mondo. Intendo dire che nel passato le generazioni di adolescenti nascevano in un mondo verticale, nel quale il sentimento con cui si confrontavano gli adolescenti era il senso di colpa. Oggi accade che in un mondo che da verticale è diventato orizzontale, perché ogni io vuole farsi Dio, fondamentalmente l’emozione di fondo dei nuovi adolescenti non è più la colpa ma il senso di inadeguatezza da intendere soprattutto come vergogna prestazionale, cioè la paura di non essere all’altezza. Se il mondo verticale era iscritto nel primato di Dio, vale a dire era un mondo morale, i bambini venivano educati secondo la pedagogia del castigo; mentre nel mondo orizzontale in cui ogni io vuole farsi Dio i nuovi genitori non anelano più al «bravo» bambino ma al bambino prestazionale, al bambino di luce, al bambino eccellente. Di conseguenza succede che la grande paura che abbraccia il nostro tempo non è più quella di non essere all’altezza di criteri morali: giusto/sbagliato buono/cattivo, ma di criteri prestazionali: vincente/perdente. La mia lettura, che propongo nel nuovo libro Lezioni d’amore per un figlio1 edito da Feltrinelli, è che se il mondo era verticale l’adolescente diventava una figura di lotta, cercava di combattere contro la verticalità dei valori paterni e materni. Nella società orizzontale in cui il genitore è un iperalleato dei figli o come ho descritto nel mio libro Mio figlio è un casino, è un genitore «zucchero filato» che dice sempre sì, il nuovo adolescente si misura con un meccanismo nuovo che è la fuga. Ecco allora che abbiamo la fuga dalla scuola (dispersione scolastica), la fuga dalla società (ritirosociale) o la fuga dalle emozioni (autolesionismo), la fuga nel corpo e del corpo (anoressie, ma anche le vigoressie maschili) e infine la fuga nelle sostanze che i nuovi adolescenti non usano per sballarsi ma per anestetizzarsi, cioè per non «sentire» il proprio sentire. MPP – La sua è una lettura molto preoccupante ma reale. Nella scuola ci confrontiamo ogni giorno con le aspettative dei genitori, in genere molto alte e a volte sovradimensionate, e con l’ansia da prestazione di bambini e ragazzi. Sempre restando nell’ambito delle criticità, un altro aspetto problematico riguarda la frequenza di atti di bullismo non solo contro i coetanei, ma anche nei confronti degli insegnanti. Come se fossero cadute tutte le barriere di rispetto e di educazione verso gli adulti di riferimento, genitori compresi. I ragazzi hanno perso il senso del limite? Come recuperarlo?
SR – Per quanto concerne i meccanismi oppositivi e di ribellione questi non sono spariti dall’agenda adolescenziale, però possono essere letti anche da questo punto di vista con lo sguardo della società orizzontale. Nella società verticale di cui parlavo prima, l’adulto veniva riconosciuto come una figura autorevole. Oggi assistiamo a una evaporazione del verticale che porta con sé una corrispondente evaporazione dell’autorevolezza; lo vediamo bene in classe dove l’evaporazione del verticale coincide con la eliminazione della pedana, per cui l’insegnante non è più al di sopra della classe, ma è un pari tra i pari. Io spesso dico ai docenti che la condizione più strutturale dell’insegnante oggi è la nudità. Essere un re nudo e senza corona con il compito difficile di fondare un’autorevolezza che non può più essere fondata sul principio di autorità, ma deve essere fondata su una relazione che io chiam «porto sicuro». Saper unire il tema dell’amorevolezza: io tengo a te, io credo in te, io ci sono per te… con quella dell’autorevolezza: io ho anche la responsabilità di essere, in quanto porto sicuro, un argine ai tuoi comportamenti oppositivi, ostili e provocatori. MPP – Un altro aspetto fondamentale riguarda i genitori che, come accennato prima, sono sempre più orientati a difendere i figli, sempre e comunque, anche di fronte a comportamenti gravi, provocando danni molto seri alla loro crescita e negando qualunque principio di autorità. Danni che si ritorceranno a breve contro di loro. Come siamo arrivati a questo punto, secondo lei? SR – La grande fatica del genitore, dell’insegnante, dell’educatore oggi, in generale, è trovare questo equilibrio difficile, dinamico tra amorevolezza e autorevolezza. Rischiamo, cioè, di aver da un lato il genitore o l’insegnante «zucchero filato» che dice sempre sì o, di contro, l’insegnante o il genitore sceriffo che pensa di educare solo con la rigidità del no. In entrambi questi casi non abbiamo una buona crescita da parte del bambino e da parte dell’adolescente, perché l’educatore «zucchero filato» con la sua assenza di regole non insegna al bambino e all’adolescente la capacità di autoregolare le proprie emozioni. Abbiamo in questo caso bambini e adolescenti di fuoco, che sono impulsivi, esplosivi, incapaci di autoregolarsi. Di contro, se abbiamo un’educazione troppo rigida, troppo dura, quella del modello sceriffo, dimentichiamo che il bisogno che precede ogni bisogno, per un bambino o un adolescente, è essere nello sguardo caldo di chi si prende cura di lui. Quindi dobbiamo riuscire a trovare, in questo mondo orizzontale dove i limiti sono evaporati, un equilibrio dinamico tra amorevolezza e autorevolezza. Questo equilibrio consiste nel creare una relazione porto sicuro.
MPP – A questo proposito, lei sa che il modello di scuola Senza Zaino si basa sui valori di responsabilità, comunità, ospitalità. Rispetto e cura delle relazioni sono alla base del nostro modello, che è molto diffuso, ma siamo comunque una piccola minoranza. Come recuperare su larga scala prestigio sociale per scuola e insegnanti, nonché serenità e benessere per il lavoro di docenti e studenti?
SR – Per quanto riguarda questa domanda, a mio parere dobbiamo ricucire il cielo che da troppo tempo è rimasto spezzato tra scuola e famiglia. Se noi pensiamo all’adolescente come una piccola imbarcazione animata da due remi, un remo è la scuola e l’altro è la famiglia, se questi due remi non sono sincronizzati, cioè non hanno nell’orizzonte la stessa direzione, il destino inevitabile dei nostri ragazzi e dei nostri bambini è che la loro imbarcazione finisca per andare fuori rotta, girando su se stessa. Ecco io penso, e questo è il contributo che io provo a dare al sistema educativo del nostro Paese, che una buona direzione che faccia convergere scuola e famiglia è la comprensione del funzionamento el cervello emotivo. Quindi partendo da quello che sappiamo sull’intelligenza emotiva, l’intelligenza sociale e quella empatica, possiamo convergere a livello educativo e ricucire questo cielo spezzato. MPP – Il suo approccio a queste problematiche è basato suempatia, cooperazione, comprensione e ascolto profondi,peraltro con molti punti in contatto con la visione di SenzaZaino. Ma lei ritiene che questi siano strumenti adeguati, di fronte a comportamenti violenti? Lei ha lavorato molto e lavora con classi difficili, ragazzi problematici. Qual è la chiave del successo del suo metodo? SR – Il modello della didattica cooperativa e dell’educazione emotiva che propongo ha assolutamente tanti punti di contatto con la filosofia e anche con l’approccio del modello Senza Zaino. Sicuramente, dal punto di vista più squisitamente didattico, la didattica cooperativa non significa soltanto fare insieme delle cose. Possiamo dire che anche i nazisti o i camorristi sono bravi nel fare insieme le cose. Ma io vedo la cooperazione come un modo più profondo di prendersi cura, con empatia, gli uni degli altri. Il che significa, anche all’interno dell’ora di lezione, promuovere attività cooperative e sollecitare intelligenze come quelle di cui parlavo prima: quella sociale, quella empatica, ma anche l’intelligenza critica, perché sono queste di cui abbiamo bisogno per costruire un senso di comunità nel tempo dell’evaporazione della comunità. Riguardo invece il lavoro con gli studenti oppositivi io propongo nel mio libro "Mio figlio è un casino" un approccio basato sul modello del porto sicuro, che prova a leggere il cervello dei nostri bambini, dei nostri ragazzi e anche quello di noi adulti, come un veliero. In cui individuiamo tre macro-componenti; il timoniere che è il cervello che pensa, le grandi vele sono il cervello che sente, e soprattutto lo scafo che è il cervello da combattimento, o se vuoi il cervello di sopravvivenza. Ora il problema è che dietro molti dei comportamenti impulsivi, reattivi, oppositivi di bambini e ragazzi c’è quella che dobbiamo imparare a chiamare con il nome corretto e cioè di sregolazione emotiva. E nel modello del veliero la di sregolazione emotiva è il piccolo timoniere, cioè il cervello che pensa e che perde il controllo delle grandi vele delle emozioni. In questo caso succede, in classe come a casa, che si innesca il cervello di sopravvivenza, cioè lo scafo che sa solo aggredire, attaccare oppure fuggire. Il contributo che l’educazione emotiva offre è una gestione della classe finalizzata non solo a spegnere i comportamenti tempesta, ma raggiungere un obiettivo più grande, ovvero insegnare a bambini e ragazzi a riconoscere, comprendere e navigare nel grande mare delle emozioni.